Le minni di virgini di Sambuca

A distanza di secoli, evocare il nome “Minne di Virgini”, suscita ancora pudicizia e stupore. A Sambuca, attorno al dolce più famoso, è stata intessuta una fitta trama di racconti, storie scritte a metà, a ragione, al limite del vero, avvolte da un alone di mistero. Di sicuro fagocitate da eventi storici e licenze poetiche. D’altro canto il nome e la forma si prestano – almeno all’apparenza – a dubbie interpretazioni.
Le “Minne di Virgini” o per i più pudici le “Paste di Regina” o “Petti di Regina” o ancora “Paste delle Vergini” di tomasiana memoria, lo scrittore – Tomasi di Lampedusa – non è da escludere che le abbia apprezzate in casa dei nonni nella vicina Santa Margherita – che le ha fatte entrare di diritto tra le cose a lui più care, leit motiv del suo romanzo, “Il Gattopardo”, omaggio ad un’isola che non è più, ma che nonostante tutto vuole ancora apparire; una Sicilia che diventa come le paste di oggi, ricercate nella forma ma prive di contenuto, simbolico chiaramente. Un dolce che ha tenuto quella carica devozionale fin quando non è stato mercificato ed esposto in ogni vetrina.
Sulla scia di Tomasi, altri autori non hanno esitato a farle entrare di diritto nel terzo Millennio. E così si trovano nel romanzo di Licia Cardillo “Eufrosina”, schiaffo morale ad una donna che del corpo ne ha fatto oggetto di tradimenti e vendette e, più recentemente, nel romanzo di Giuseppina Torregrossa, “ll conto delle Minne”, edito da Mondadori.
Ma qual è la fortuna di questo dolce? Certamente, al di la della bontà, è il nome che incuriosisce e attrae. Affascina e fa storia. Ed oggi tendenza. Se ne parla sempre più spesso. Articoli e servizi speciali, ma anche documentari trasmessi dalla “RAI” e convegni, uno per tutti, quello di Sciacca promosso dalla SOART dal titolo “Dolci e Veli – La pasticceria dei monasteri siciliani”.
Al di là dell’intrigante racconto di Alfonso Di Giovanna – a metà tra storia e libertà poetica dello scrittore, che vede la nascita del dolce quale devoto omaggio delle collegine al marchese Beccadelli – il nome è legato ad un martirio, quello di Agata. Una lunga scia di sangue lo precede, rosso e intenso come il suo colore, forte come la volontà della giovane catanese di non abiurare la propria Fede, fino allo strappo del seno. Omaggio ad una santa e memoria di un martirio!
D’altro canto, in Sicilia, non è nuovo rievocare la memoria di un santo con un dolce. Basta ricordare le “Chiavi di San Pietro” o “l’Ucchiuzzi” di Santa Lucia.
Un dolce, le “minne”, che comunque ci porta dentro il Collegio di Maria, dove le monache – alla stregua di tutti i monasteri siciliani – confezionavano dolci per sopravvivere. Nella “Carta dei dolci” – non solo biscotti a “caviglia” ma anche “Minne di Virgini” di cui la ricetta ha valicato le mura claustrali grazie a Sr. M. Vittoria Sparacino (1850-1931) ultima collegina entrata a far parte della congregazione prima della soppressione religiosa e l’ultima ad uscirne. E con lei la ricetta.
Alla religiosa va il merito di confezionarlo oltre le severe mura e far passare in mani “laiche” il dolce agatino portato a Sambuca, non da escludere, nella seconda metà del Seicento quando il sambucese Michelangelo Bonadies viene eletto vescovo della città etnea, o qualche anno più tardi, – nel 1741 – quando la prima superiora apre i battenti del collegio e porta con se da Palermo la ricetta del dolce che i palati più esigenti inseguono e le cronache più recenti parlano sempre più. Un dolce che attrae e affascina. Goduria del palato e memoria di un martirio.

 

Grazie alla gentile concessione dell’Arch. Giuseppe Cacioppo, autore di questo racconto sul più famoso dolce tipico di Sambuca di Sicilia